L’acronimo T.V.A.T.T., oltre la sua seducente spiegazione di Teorie Violente Aprioristiche temporali e Territoriali, è un imbroglio linguistico. Semplicemente, nel dialetto della costa casertana si riduce a “ti picchio”, o “ti ammazzo di botte”, dipendentemente dal tono e dalla violenza espressiva che si usa.
Ma prima di addentrarci nel territorio narrativo di Luigi Morra, è bene parlare di Lunarte. Siamo al Sud e quando incombe l’estate con i suoi villeggianti, comincia la fiera delle saghe e delle feste. La neomelodica e la tristezza di palchetti allestiti per darsi un tono di felicità vacanziera abbondano.
Lunarte, nell’entroterra della provincia casertana, si pone come una delle rare eccezioni di rinunciare al facile richiamo del pacchiano e dei suoi lustrini. Un festival che sceglie di fare cultura, spettacolo teatrale, artisti di strada, performance musicali.
I soldi sono pochi per tutti i comuni, quindi ognuno tende ad avere il massimo ritorno. Ed ecco che le strade di Casanova, vicoli antichi con i suoi portoni, si aprono per una notte. Il risultato sono strade piene di persone curiose. Una bella vittoria che va avanti da ben otto anni. Il neomelodico rimane al palo, bandito da scelte coraggiose che dimostrano una pervicace resistenza meridionale, un Sud altro, che incanta e stupisce. In questo contesto, in un suggestivo portone, con giardino, va in scena T.V.A.T.T.
Morra è attore, regista, scrittore. La sua ricerca si fonde con la terra meridionale, nelle sue accezioni più visibili e per questo meno indagate. La violenza, il suo racconto, la sua visione quotidiana, la strada come palcoscenico e i passanti come comparse, attori che assistono a colluttazioni più o meno gravi diventano il pretesto da cui nasce T.V.A.T.T.
Un’orazione alla violenza.
La performance ha al centro il corpo di Luigi, che si trasforma in soggetto meridionale a torso nudo, minaccioso, silenzioso, di cui non si comprendono le intenzioni. La voce recita una tipica situazione di violenza, semplice, genuina. Una sorta di mantra che apre il palcoscenico. Una voce catatonica, ripetitiva, dialettale. Una minaccia di violenza, una contesa che deve finire con la sopraffazione più bieca. Il tono monocorde rende il mantra inquietante. Botte, palate, mazzate, tutto il campionario di minacce, di progettazione della stessa. Andare a prendere il contendente, metterlo in macchina, portalo in luogo isolato e picchiarlo a sangue. La violenza che diventa lirica del quotidiano vivere. Frasi ascoltate cosi tante volte, ripetute, dall’infanzia fino a sempre.
Il mantra inquieta per la sua semplicità, la sua atavica presenza nei ricordi di tutti. Di un pubblico che ride, perché la violenza diverte, intreccia corpi, presi a caso tra il pubblico stesso che interpretano l’assurdità della lotta per futili motivi. E il Sud guarda, osserva questa violenza di cui si nutre ogni giorno. La performance quindi ha tre momenti: il suo mantra introduttivo, l’interazione con il pubblico che diventano pupi di una violenza messa in scena e la confessione finale. Uno specchio sullo sfondo riflette Morra, un doppio. Nel Sud tutti sono pronti ad diventare altro in nome della violenza, qui più che altrove, perché è pane quotidiano.
La confessione che chiude T.V.A.T.T. è una riflessione amara.
Di solitudine, di autismo verso la vita composta da stilemi altri e imposta a tutti. Il Sud, che tutti vogliono altro, vive di una sua realtà propria che si nutre di atroce violenza. Un incidente al semaforo, un battibecco, ed ecco che corpi vestiti in colori sgargianti si annodano, sudati, per trionfare davanti ad un pubblico sempre presente, un coro greco che non manca mai su nessun marciapiede o piazza del meridione.
Incita, anche se in silenzio, partecipa, si dimena, tragedia comune che distoglie per un attimo dal dramma di dover vivere. La verità non è complessa, e la confessione è semplice: “La verità è che sono profondamente solo. La verità è che lotto per non sentirmi ridicolo. Ogni giorno. Ogni sera. Ogni notte. Sempre io e me, da solo e incazzato”.
Una rabbia inesplosa, inespressa, che diventa risata sguaiata nel pubblico che osserva Morra, ma allo stesso tempo interpreta perfettamente la folla di gente, coro greco, sul marciapiede mentre scorre il sangue.
T.V.A.T.T. è un attimo di coraggio, di chiarezza, di arte al meridione.
Un racconto breve, e per questo ancor più incisivo. Nulla è lasciato al caso, tutti i frammenti si compongono come i cazzotti dati con violenza, perché il fine ultimo è far male, anche se la lotta sembra disordinata. Morra chiude con un interrogativo pesante T.V.A.T.T.: “Sii omm’?” Sei uomo? La domanda posta a tutti quelli che non scendono a regolare con la violenza un torto subito. Nel Sud non sei uomo, quasi arena dei gladiatori, se non scendi in strada a vendicare i torti subiti. Ed ecco che aprioristicamente non si può decidere nulla, se non la propria solitudine mentre intorno infuria la lotta. Anche questo è Sud.
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Come nasce la riflessione alla base di T.V.A.T.T.?
“La voglia di lavorare su un certo tipo di violenza la porto dentro da lungo tempo, un argomento che mi segue da subito dopo l’adolescenza e che in qualche modo è cresciuto assieme a me. Di recente mi è capitato di approfondire East e West, due testi di Steven Berkoff, e sono rimasto colpito dalla necessità che ha spinto l’autore a lavorare su determinate tematiche, subendo soprattutto il fascino “spettacolare” di una violenza fatta di risse, periferie, questioni di principio, schiaffi e quanto ne consegue. Da un impulso molto simile, legato ovviamente a diversi contesti geografici e culturali, nasce T.V.A.T.T.”.
Nella tua performance è narrata una violenza comune, quotidiana, che si avverte in ogni momento perché ormai presente nel parlare e vivere comune. E’ una caratteristica del meridione, una nostra peculiarità?
“Credo sia essenzialmente una caratteristica dell’essere umano, che trova sfoghi diversi in soggetti e territori diversi. Dove più dove meno. Nel Meridione forse più”.
Mi ha colpito come, davanti ad una narrazione estremamente dura della violenza, il pubblico rideva. Effetto voluto?
“Effetto opportuno. E’ necessario che il pubblico si riconosca in questo lavoro. Solitamente quando ci si ritrova in un’ opera d’arte si tende a sorridere, quando poi quello che si vede è esasperato, caricato, grottesco… si ride. Va bene. Essenzialmente T.V.A.T.T. cerca il suo senso anche attraverso la comicità. Aggiungo anche che una grossa componente comica è già presente nella realtà che questo lavoro indaga”.
La tua performance teatrale sottolinea, davanti all’espressione della violenza, il deflagrare della solitudine e dell’indifferenza in chi la osserva.
“Sì. Sono contento se questo accade. Due persone fanno a botte e tu puoi scegliere tra la solitudine di chi rimane indifferente e la solitudine di chi corre a guardare la performance. Poi c’è la solitudine di chi vive queste dinamiche in prima persona. Quando dai uno schiaffo sei solo esattamente come quando prendi uno schiaffo. Ridondante solitudine”.
Il dialetto, l’espressione gergale hanno un ruolo preminente nel tuo teatro. Una cifra stilistica indubbiamente, ma la lingua stessa del territorio sembra essere violenta, aggressiva, quasi che l’uso dell’italiano soltanto depotenzierebbe l’impianto narrativo.
“Il dialetto ha un ruolo preminente in questa performance, che è in realtà un primo studio sull’argomento. Ha un ruolo forte anche il distacco che crea l’italiano nell’ultima parte. Di sicuro il dialetto è una lingua che diventa linguaggio scenico, che ovviamente sembra essere violenta e aggressiva per sua natura. Non so dirti se l’uso dell’italiano soltanto depotenzierebbe la narrazione, laddove è forse il linguaggio stesso a diventare narrazione”.
Il Sud appare, giorno dopo giorno, un palcoscenico calcato piuttosto che da attori da comparse. Metafora forse anche banale, ma qual è il tuo punto di vista, soprattutto culturale?
“Un palcoscenico calcato da comparse piuttosto che da attori”… mi piace questa cosa, somiglia esattamente al mio punto di vista”.